Il nuovo presidente cinese Xi Jinping, a poco più di un mese dalla formalizzazione del mandato, si trova a dover affrontare delle sfide problematiche e, in particolare, a dover mediare la delicata crisi coreana.
Il capo di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha rinnovato l’invito alla calma, più volte avanzato nelle ultime settimane, nel discorso di apertura del 7 aprile del Forum Economico di Bohai, sull’isola di Hainan: «A nessuno dovrebbe essere permesso di portare il caos in una regione e nel mondo intero per fini personali»[1].
Xi Jinping ha ribadito che la Cina perseguirà il mantenimento di “buone relazioni” con i suoi vicini per la stabilità della regione; la linea ufficiale di Pechino rimane, dunque, quella del dialogo tra tutte le parti coinvolte.
L’alleanza della Cina con la Repubblica Democratica Popolare di Corea ha origini storiche, che risalgono alla Guerra di Corea (1950-1953), alla fase di reazione al contenimento statunitense, e alla stipula del Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione siglato nel 1961 e valido fino al 2021.
L’alleanza è strategica e fondamentale per entrambi i Paesi.
Innanzitutto, la Corea Popolare, nel perseguimento delle riforme economiche sul modello cinese, necessita del sostegno economico e dell’acquisizione di conoscenze tecniche; nella prima metà del 2012, gli interscambi commerciali ammontavano a 3,14 miliardi di dollari.
La Cina, d’altro canto, ha ben presente l’importanza di Pyongyang dal punto di vista geopolitico, in quanto zona di cuscinetto tra il territorio cinese e le truppe statunitensi di stanza nel sud del trentottesimo parallelo.
Il governo di Pechino non può, dunque, abbandonare la Repubblica Democratica Popolare di Corea. Tuttavia è indubbio un sottile spostamento della politica estera cinese ed un progressivo allontanamento da Pyongyang; Pechino ha preso le distanze dal suo alleato in seguito al terzo test nucleare sotterraneo del 12 febbraio 2013[2], sostenendo, per la prima volta, il nuovo pacchetto di sanzioni ONU contro il Paese, presentato il 7 marzo scorso. La posizione della Cina si delinea piuttosto scomoda. La minaccia nordcoreana agli Stati Uniti è trascurabile, dal momento che l’esercito di Kim Jong-un non è fornito di missili a lunga gittata capaci di trasportare ordigni nucleari; piuttosto, è sentita maggiormente a Seul, Tokyo e Pechino; inoltre, Pyongyang non deve tralasciare il fatto che gli Stati Uniti controllano le sanzioni internazionali data la posizione dominante nel Consiglio di Sicurezza, e possiedono una concreta egemonia politica nel sistema internazionale. Forse Pechino in passato si è mostrata troppo accondiscendente con la Corea del Nord, comunque oggi, eliminare le strutture nucleari coercitivamente è impensabile e si tradurrebbe in una guerra globale. Il governo cinese dovrebbe, invece, indurre Pyongyang ad aderire al Trattato di Non-Proliferazione (TNP).
In questi giorni Pechino ha inviato delle truppe al confine con la Corea Popolare, non tanto a fini offensivi, ma per difendere il confine dall’eventuale ondata di rifugiati nell’eventualità di un crollo del regime (comunque improbabile, n.d.r.).
Anche il governo statunitense ha mostrato un allentamento della presa, sospendendo il test missilistico a lungo raggio che doveva tenersi questa settimana; Washington vuole evitare di provocare ulteriormente Kim Jong-un, ed eventualmente rispondere solo con atti di pari intensità.
Nel frattempo, Pyongyang invita i rappresentanti diplomatici presenti sul territorio a rimpatriare, e gli stranieri presenti nel Sud a lasciare il Paese; un tentativo di guerra psicologica a cui Seul rifiuta di abboccare. Il governo nordcoreano ha annunciato, inoltre, di avere completato i preparativi per il lancio di uno dei suoi missili a medio raggio, il Musudan, alcuni esemplari del quale sono posizionati lungo la costa orientale del Paese. I Musudan si pensa possano colpire un bersaglio distante anche 3/4.000 chilometri, mettendo a rischio strutture strategiche sud-coreane, giapponesi e l’avamposto militare statunitense di Guam, nel Pacifico.
Il polo industriale intercoreano di Kaesong rimane ancora bloccato, con conseguenti gravi perdite economiche per l’intera Penisola Coreana.
Il persistere di questa politica spregiudicata da parte della Corea del Nord, della cosiddetta brinkmanship[3], viene dall’Occidente considerato indicativo della grave difficoltà del Paese, che vive in condizioni economiche ancora non in linea con gli standard dei Paesi avanzati e della necessità da parte del nuovo capo di Stato di ottenere legittimità sia sul piano internazionale che su quello interno.
La strategia di Pyongyang deve essere superata attraverso una cooperazione e collaborazione internazionale, e la Cina, in primis, può sostenere e promuovere tale strategia diplomatica.
[1] Buzzetti E., Coree: test nucleare non imminente, Agichina24.
[2] L’ordigno nucleare del 12 febbraio è risultato di potenza doppia rispetto ai due precedenti esperimenti del 2006 e del 2009.
[3] Il termine brinkmanship, coniato dal Segretario di Stato John Foster Dulles nel corso della Guerra Fredda, indica la strategia del “rischio calcolato” o dell’ “orlo del burrone”, ovvero il ricatto nucleare al fine di ottenere uno specifico obiettivo.