Già sul finire del XIX secolo, in anticipo rispetto ai primi voli, effettuati nel primo decennio del XX, non mancarono le figure che si cimentarono nell’ immaginare i risvolti che l’impiego del mezzo aereo avrebbe di li a poco avuto, nel settore bellico come in quello civile. Si ipotizzarono così scenari in cui “fortezze volanti” volavano sulle città seminando terrore e distruzione. In realtà mongolfiere e poi aerostati si libravano in cielo già da parecchio tempo, trovando i primi impieghi bellici già in epoca napoleonica (ricognizione)1. Resta il fatto che, rispetto a quest’ultimi, l’aeroplano aveva introdotto qualità come robustezza, velocità e maggiore autonomia (nonché potenza di fuoco) soppiantandoli quasi del tutto.
Le prime teorie comparvero più o meno in contemporanea col mezzo, risultando i loro autori più dei “pratici” che dei “teorici”, nel senso che facevano parte di una ristretta cerchia di personale di settore, competente, spesso militari quando non proprio aviatori. Lo stesso Douhet, il primo a raccogliere in un discorso organico le varie nozioni che circolavano nell’ambiente, non era un aviatore ma possedeva notevoli conoscenze ingegneristiche riguardo il funzionamento dei velivoli. Soprattutto, le loro più che teorie erano considerate delle mere dottrine di impiego. Più che di scienza, era forse opportuno parlare di fede, citando il Segretario alla Guerra dell’Amministrazione Eisenhower, H.M. Stimson, il quale, parlando del potere navale (ma sarebbe lo stesso se applicassimo la definizione al potere aereo e a Douhet) definì la Marina degli Stati Uniti l’unica Chiesa consacrata laddove Nettuno era l’unico Dio e Mahan il suo profeta. Da Mahan in particolare, il Generale italiano mutuava addirittura alcuni termini come Aereo da Battaglia (laddove lo statunitense aveva usato nave da battaglia) o Costa dell’Oceano dell’Aria (similmente alle coste oceaniche). Questo per far capire in quale misura essi vedessero il nuovo strumento di turno come quello finalmente risolutivo. In questo senso Douhet, con la sua teoria si inseriva perfettamente nel solco scavato da predecessori come appunto Mahan o Jomini. Li accomuna non soltanto l’eccessiva importanza data al particolare (nel nostro caso il velivolo/potere aereo) a scapito del generale (teoria della guerra) ma anche e soprattutto la fede nel fatto che una volta scoperti i principi fondamentali della guerra, quasi come si trattasse di formule matematiche, la loro convinta e corretta applicazione avrebbe portato incondizionatamente ad un certo tipo di risultati. Una distinzione importante tuttavia, come fa notare Bernard Brodie2, è che mentre Jomini e Mahan strutturano la loro teoria mediante osservazione ed analisi del passato, Douhet è completamente volto al futuro, partendo dall’assunto che il modo di fare la guerra è cambiato, conoscere come si faceva in passato non è più di alcuna utilità nella formulazione di una teoria della guerra, piuttosto occorre capire come è destinata a svolgersi in futuro. Per Douhet ed i primi teorici del potere aereo, ciò si traduceva in un massiccio impiego delle risorse a favore dello sviluppo della forza aerea, soprattutto delle sezioni da bombardamento. Quest’ultime cresceranno d’importanza all’interno della sua teorizzazione nel corso degli anni, divenendone definitivamente protagoniste al termine della Grande Guerra – è del 1921 infatti la prima edizione della sua opera maggiore Il Dominio dell’Aria – della quale Douhet era stato attento osservatore. Importante nei suoi orientamenti fu sicuramente il rapporto con Gianni Caproni, padre della nascente industria aeronautica italiana.
Genesi della teoria douhettiana
Sul finire del XIX secolo, così come all’inizio del XX, il credo militare che dominava nelle accademie e negli stati maggiori delle potenze occidentali si basava su tre fondamenti:
1) Il culto dell’offensiva, sia strategica che tattica;
2) La massa, intesa come concentrazione dello sforzo nel tempo e nello spazio;
3) La ricerca della Battaglia decisiva.
La ricerca di questi tre fattori portò alla sciagura della prima guerra mondiale, ma già nei decenni precedenti si erano avute avvisaglie del disastro imminente3. Le continue innovazioni tecnologiche stavano infatti cambiando il volto della battaglia, le vecchie concezioni si rivelavano sempre più inefficienti e costose in termini di perdite umane. La Grande Guerra era divenuta guerra di logoramento, le offensive si impantanavano continuamente, fermate dalla potenza di fuoco nemica nonché da fortificazioni, filo spinato, mine e quant’altro. La difensiva otteneva la supremazia sull’offensiva a livello tattico e radunare in massa le forze non conduceva ad una vittoria decisiva, bensì ad una serie di carneficine, è il caso di Verdun, della Marna e, purtroppo, di molte altre soprattutto sul fronte occidentale. In questo contesto, il nascente potere aereo rappresentava un’innovazione eccezionale. Grazie ad esso era di nuovo possibile spezzare il fronte, portare la minaccia al di là di esso, senza peraltro rischiare nulla poiché, al netto di incidenti, le possibilità che un velivolo venisse colpito da un velivolo nemico o da contraerea erano inizialmente pressoché nulle. Se la difensiva continuava a pagare per terra e per mare, per aria era di nuovo l’offensiva a farla da padrone, senza capacità di difesa per l’avversario. Come Douhet affermerà più volte – resistere sul terreno per far massa nell’aria – era nei cieli che si sarebbe dovuta svolgere l’offensiva decisiva. Corollario ne era il fatto che quello aereo era da considerarsi un teatro indipendente, così come indipendenti dovevano essere le nascenti forze aeree dei vari Paesi. Peraltro, quando Douhet parlava di Armata Aerea non intendeva l’intera aeronautica, bensì la sua articolazione che si occupava di bombardamento strategico. Per introdurre questo concetto, dobbiamo prendere coscienza di come la guerra assuma in questi anni anche la fisionomia di uno scontro totale. Al fronte militare, statico, si affiancava quello interno, costituito dalla popolazione e dall’apparato produttivo col quale si alimentava la guerra. In quest’ottica, cadevano le tradizionali distinzioni proprie del diritto internazionale ed il combattente al fronte aveva lo stesso valore dell’operaio in fabbrica, donne comprese. Il mezzo aereo, inteso appunto nella funzione di bombardamento strategico, dava la possibilità di andare a colpire questo “ventre molle” nemico causandone la cessazione delle ostilità. A patto di aver prima conquistato il dominio dell’aria. Questa è la colonna portante di tutte le teorie sul potere aereo, per poter operare nei cieli, è necessario acquisirne il dominio, inteso come monopolio, come capacità di operarvi impedendo al contempo all’avversario di fare altrettanto. Le conclusioni tratte dall’osservazione della Grande Guerra erano dunque alla base della teoria douhettiana.
L’altra concezione fondamentale era sicuramente la situazione geostrategica dell’Italia nell’immediato dopoguerra. Attaccabile sia per mare che per terra da tutte le direzioni, con forze di terra e di mare insufficienti per attuare una difesa credibile – e non potendo stendere uno scudo a protezione della Penisola – il dominio dell’aria era sicuramente l’unica difesa attuabile e si presentava inoltre più economica da perseguire rispetto al potenziamento di Esercito e Marina. Ovviamente, un tale dominio garantiva la possibilità accessoria di portare la minaccia oltreconfine con un raggio di un migliaio di chilometri (tale era l’autonomia dei bombardieri di quel periodo) di modo che, come enfaticamente faceva notare lo stesso Douhet, tracciando una circonferenza di tale raggio, vi sarebbe racchiuso tutto il territorio dell’Impero Romano.
Principi fondamentali della teoria del bombardamento strategico.
Da quanto detto finora si evince come quella douhettiana non era una semplice teoria del potere aereo, ma piuttosto una teoria della guerra totale. L’utilizzo del potere aereo, tramite bombardamento strategico, era rivolto a colpire il fronte interno, il morale della popolazione ed i gangli vitali del sistema-Paese, vale a dire i centri di governo, l’apparato industriale e le principali città. L’impiego previsto tornava ad essere un impiego in massa, offensivo, volto a causare il maggior danno possibile il più velocemente possibile poiché l’assunto di partenza prevedeva che non vi fosse difesa contro l’attacco aereo, pertanto chi prima e più duramente avesse colpito, avrebbe avuto la meglio4. Si sgretolava così, oltre alla distinzione tra belligeranti e non, anche la formalità della dichiarazione di guerra, sacrificata in nome della necessità di colpire prima e con sorpresa. È ovvio, peraltro, come si possano qui intravvedere i semi delle future dottrine dell’intervento preventivo. Da questa rassegnazione all’idea di non poter scongiurare l’attacco aereo, nasceva l’idea di conquista del dominio aereo come strumento di difesa oltreché d’attacco.
Tra l’altro, l’utilizzo del mezzo aereo si intrecciava, a partire dal primo dopoguerra, con l’utilizzo di agenti chimici e batteriologici. Anche e soprattutto in Douhet. Il tipo di bombardamento previsto dal Generale italiano era infatti triplice. Una sequenza di esplosivi convenzionali per causare danni incendiari, per generare caos ed interdire ai soccorsi le zone bombardate, infine chimici per ritardare ancora i soccorsi e contaminare le zone colpite. Addirittura era stato teorizzato l’impiego di spolette per ritardare e differenziare lo scoppio di alcune bombe, al fine di prolungare gli effetti del bombardamento. In questi passaggi è evidente l’impostazione dottrinale delle opere del Douhet, che spesso scende così nel dettaglio da rasentare il rigore della formula matematica. Con una Unità da Bombardamento – corrispondente ad una Squadriglia di dieci velivoli – si poteva effettuare un bombardamento pagante su una Superficie Distruggibile avente un raggio di cinquecento metri quadrati5. I danni causati da un corretto bombardamento su un’area di questa estensione sarebbero risultati devastanti ed insopportabili per la popolazione civile, avrebbero portato al collasso l’apparato industriale nemico, causando così la cessazione delle ostilità e la vittoria dell’attaccante. Tornavano alla ribalta offensiva, massa e decisione. Fondamentale era la conquista dei cieli, dopodiché si potevano concentrare le forze al di qua del fronte – che a questo punto è un limite per il solo nemico – e scagliarle, possibilmente in ondate successive, sull’ avversario che non potrà prevedere dove e quando cadrà il colpo di martello, essendo l’area percorribile dai velivoli talmente estesa da coprire spesso e volentieri l’intera superficie del Paese. Un attacco del genere avrebbe portato ad una rapida decisione. Questi assunti erano destinati a permeare le dottrine della nascente Regia Aeronautica (1923) nonché della gran parte delle aviazioni degli altri Paesi, ad eccezione forse della sola Luftwaffe tedesca. Quest’ultima, a causa delle condizioni vincolanti del Trattato di Versailles, nacque (in maniera peraltro non ufficiale) all’interno dei quadri dell’Esercito, grazie all’impegno profuso da una figura importantissima come Helmuth Wilberg6, da considerarsi il vero padre dell’Aviazione Tedesca. Data la particolare genesi, la forza aerea tedesca era forse l’unica che, negli anni tra le due guerre, presentava una forte inclinazione a livello dottrinale verso la collaborazione con le forze di terra, sacrificando quell’autonomia/indipendenza che era considerata sacra da tutte le altre Aeronautiche. La sua inclusione come parte integrante della Blitzkrieg peraltro, ne fece una carta vincente prontamente imitata dal resto delle potenze durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Per il resto, figure come Sir Hugh Trenchard o Arthur “Bomber” Harris in Inghilterra, Billy Mitchell negli Stati Uniti portarono avanti dottrine molto simili a quella douhettiana. Emblematico è il caso inglese, ove fino alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale fu trascurato il Fighter Command (Squadroni da caccia) a favore del Bomber Command (velivoli da bombardamento) salvo poi invertire la rotta giusto in tempo per vincere la Battaglia d’Inghilterra. Negli Stati Uniti poi, non solo la dottrina del bombardamento strategico prevalse, ma questa situazione perdurò legandosi al monopolio nucleare, non tenendo in dovuto conto le lezioni del conflitto mondiale e della Guerra di Corea.
Le maggiori critiche al pensiero di Douhet
Per una teoria che prevede una miscela così distruttiva di esplosivi, per di più utilizzati contro la popolazione civile, le maggiori critiche non possono che essere di stampo etico. Amedeo Mecozzi, asso dell’aviazione da cacciadurante la Grande Guerra, già critico delle teorie douhettiane quanto a modalità di utilizzo del mezzo aereo7, non manca di portare la critica anche nella sfera dell’etica, tanto che una delle sue opere si intitolerà emblematicamente Guerra agli Inermi. Ecco, nella parola “inermi” sta il nucleo delle critiche che vengono rivolte al generale italiano. Si legano ovviamente a quanto detto in precedenza, ovvero allo sconfinamento delle ostilità dal campo di battaglia alla popolazione, con la caduta della distinzione tra belligeranti e non. Distinzione prevista dal diritto internazionale, alla violazione della quale le società non erano affatto preparate. Ad aggravare tali critiche contribuisce poi l’utilizzo, quantomeno ipotetico, di aggressivi chimici. C’è tuttavia un filone di pensiero che vorrebbe un Douhet consapevole della brutalità della sua dottrina8. Tale consapevolezza andrebbe inquadrata nell’immagine, che Douhet certamente aveva chiara in mente, di come la guerra si era evoluta e, pertanto, da un lato il potere aereo avrebbe permesso, per quanto in maniera devastante, di porvi fine nel modo più veloce (evitando così le carneficine della Grande Guerra), dall’altro tale brutalità della guerra avrebbe forse fatto sì che sempre meno vi si sarebbe ricorsi in futuro.
Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, le critiche maggiori riguardano il tipo di utilizzo che si voleva teorizzare per il nuovo mezzo. Gli oppositori di Douhet teorizzavano un utilizzo dell’aviazione integrato nei comandi di terra, ad appoggio delle operazioni di terra piuttosto che un utilizzo mirato esclusivamente al bombardamento del fronte interno nemico. Sono teorie che tra le due guerre hanno trovato terreno fertile nella sola Germania ma che, invece, dal secondo dopoguerra in poi riscuoteranno successo un po’ ovunque, con la sola eccezione, questa volta, degli Stati Uniti. L’argomento principe dei detrattori – e qui si innesta un’ulteriore critica – era certamente quello della mancanza di utilità del bombardamento strategico. Raramente infatti, tale utilizzo si era rivelato vincente9, mai decisivo da solo. La presunta impossibilità di difesa dal raid aereo non aveva trovato conferma, vuoi per le rapide migliorie nella contraerea, vuoi per la prontezza con cui le popolazioni seppero adattarsi ai bombardamenti, traendone spesso rinnovato vigore anziché demoralizzazione. V’è da dire che gli stessi bombardamenti, soprattutto nei primi anni, mancavano di potenza e precisione e, soprattutto, a parziale difesa del Douhet, quasi mai vennero effettuati nella maniera da lui teorizzata. In particolare la terza componente del bombardamento tripartito, quella chimica, non venne quasi mai utilizzata. Certamente avrebbe causato danni e disperazione ben maggiori. Ad ogni modo, nei casi dove vennero effettuati bombardamenti chimici, come nella guerra condotta dall’Italia in Etiopia, nonostante i gravissimi danni apportati a popolazione ed ambiente, non furono comunque decisivi ed il loro effetto andò scemando col tempo.
La critica sulla quale a mio avviso ci si deve soffermare di più a riflettere, è quella di una mancanza nel complesso delle opere di Douhet, di una strutturata teoria politica della guerra. Il presupposto di tale critica risiede nel fatto che Douhet, come Jomini e Mahan prima di lui, formuli la sua teoria come risolutiva, come una formula che, se applicata correttamente, garantirebbe un risultato certo. La critica viene mossa chiaramente da un punto di vista clausewitziano. È noto come il generale prussiano dava molto spazio ad aleatorietà ed attriti vari, dovuti alla sorte, alla preparazione umana, alle condizioni atmosferiche, nel caso di un velivolo diremmo inefficienze ed errori di pilotaggio. Ora, l’insieme di questi attriti, insieme con gli effetti della reciprocità attacco/difesa, dà luogo ad una serie di pause all’interno delle quali si inserisce la politica, rimodulando lo scopo politico e di conseguenza l’obiettivo militare. Proprio questo ruolo della politica come fattore limitante della guerra si individua come carenza principale nel pensiero di Douhet. La chiave del ragionamento risiede però nel fatto che l’intera teorizzazione del generale prussiano si collochi all’interno di un periodo storico in cui l’equilibrio di potenza è alla base dei rapporti tra Stati, è considerato uno dei valori fondanti del Sistema di Stati Europeo10. Le guerre, ad eccezione di quelle napoleoniche, erano guerre limitate, tra Stati che si riconoscevano vicendevolmente e che avrebbero continuato a convivere nel continente europeo alla cessazione delle ostilità. Ma col primo conflitto mondiale la guerra diventa di annientamento, totale, viene meno il Sistema di Stati. Soprattutto, l’obiettivo militare, anche a seguito del lungo stallo strategico, si sovrappone a quello politico, cambiandone la natura. L’obiettivo è ora l’annientamento dell’ avversario. È in questo contesto che Douhet teorizza. Pertanto credo si debba parlare di una voluta subordinazione della politica all’obiettivo militare, piuttosto che di una carenza.
Vi sono infine delle critiche alla sfera di valori e concezioni che ruotano intorno al mondo dell’aviazione, soprattutto nei primi anni. L’aviatore è visto come un personaggio fascinoso, che racchiude in se sia la figura del cavaliere solitario sia l’idea di modernità. Lo stesso Douhet affianca alle sue opere maggiori altre, per così dire più romanzate, in cui fa largo uso di fantasia nell’immaginare scenari futuri talvolta improbabili11. La critica, ancora una volta di provenienza mecozziana, è quella di confondere teoria e fantasia, in particolar modo di dare troppo spazio alla fascinazione nello sviluppo della sua teoria della guerra. La risposta del generale italiano a questo tipo di critica è sempre stata che, dal momento che la natura della guerra stava cambiando, la ricerca dei suoi nuovi caratteri non era un vezzo, bensì una necessità.
Conclusioni
Nel complesso delle opere del Generale Douhet si riscontrano senz’altro forti elementi di continuità con il pensiero jominiano e ancor più con quello mahaniano. Tuttavia, le sue peculiarità sono lo sguardo volto al futuro e la consapevole esclusione del fattore politico – inteso come elemento di limitazione – nella teoria della guerra. È difatti possibile affermare che quella di Douhet è una teoria della guerra (totale) piuttosto che una teoria del potere aereo. Se da un lato è certamente vero che mai, nella storia, il potere aereo, nelle fattezze da lui previste, si rivelò decisivo ed in grado di vincere la guerra da solo, è altrettanto vero che, ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad innovazioni tecnologiche di portata tale da generare una rivoluzione nel modo di fare la guerra – come fu certamente con l’introduzione del mezzo aereo – ecco ricomparire quel “douhettismo”, quella fede nel fatto che il nuovo mezzo possa risolvere tutti i problemi, quella volontà di porlo al centro della propria strategia. Era stato il caso del Potere Navale, fu quello del Potere Aereo, è stato così per il Monopolio Nucleare come per la più recente Revolution in Military Affairs con tutta la sua schiera di sensori, rilevatori, UAV e quant’altro, volti a diradare la cosiddetta “nebbia di guerra”.
Un merito va certamente ascritto al Generale Douhet, ed è quello di essere stato il primo a ricondurre ad opera compiuta l’insieme della concezioni che permeavano l’ambiente dei primi aviatori, dei pionieri dell’aria.
*Carlo Fanti è Dottore Magistrale in Relazioni Internazionali – percorso Studi Storico-Politico-Diplomatici (110/110 cum laude) presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma III. Presta servizio presso il 14° Stormo Aeronautica Militare – Pratica di Mare.
Note
1. È opportuno qui operare la distinzione gergale tra “più leggero dell’ aria” (aerostati) e “più pesante dell’ aria” (aeroplani). I primi si mantengono in quota perché dotati di cavità riempite con gas per l’ appunto più leggeri dell’ aria, i secondi grazie a delle superfici che generano portanza.
2. B. Brodie, “Strategy in the Missile Age”. Princeton University Press, 1959.
3. Dalla guerra franco-prussiana del 1870 in poi, si susseguirono esempi di come la disciplina ed il coraggio applicati alle vecchie tecniche dell’ offensiva non garantivano più la riuscita nei confronti della crescente potenza di fuoco difensiva. Il culmine si ottenne nella guerra anglo-boera, ove, in particolare nelle battaglie di Colenso e Magersfontein, gli inglesi vennero letteralmente decimati spesso senza riuscire nemmeno a vedere da dove tiravano i boeri. A rinvigorire le posizioni dei fautori della penetrazione strategica venne però la guerra russo-giapponese. Specificamente nella battaglia di Mukden, il Generale Oyama, comandante delle truppe giapponesi, riuscì ad ottenere la vittoria decisiva assaltando le truppe russe trincerate in città. Fù così possibile mantenere in vita ancora per qulache anno il culto dell’ offensiva, non volendo gli stati maggiori occidentali rendersi conto dell’ altissimo ammontare delle perdite giapponesi, evidenziando invece la decisione ottenuta grazie alla battaglia. La prima guerra mondiale calerà definitivamente il sipario su tali posture.
4. Soprattutto nei primi anni, sono effettivamente quasi inesistenti le difese contraeree. Ciò contribuisce a far si che nell’ aria, il principio clausewitziano della supremazia della difesa sull’ attacco, ampiamente affermatosi a livello tattico per terra e per mare, venga completamente ribaltato quanto a potere aereo. Luciano Bozzo, a cura di, “Il dominio dell’aria e altri scritti”, Aeronautica Militare, Ufficio storico, 2002.
5. Ciò ricorda da vicino gli studi (Operational Research) che vennero fatti da svariati think tank, centri di ricerca ed enti governativi e non, circa i possibili danni causati da un’ esplosione atomica. Celebre resta lo studio della Rand Corporation sugli effetti di un esplosione evente come punto focale l’ isola di Manhattan. Eric R. Terzuolo, “Armi di distruzione di massa. Che cosa sono, dove sono e perché”, Editori Riuniti, 2007.
6. Tra i primi tedeschi di origine ebraica ad essere “arianizzato”, fu grazie al suo impegno che piloti poterono essere addestrati all’ interno dei quadri dell’ Esercito o nelle compagnie civili, dal momento che la Germania non poteva costituire un’ Aviazione Militare.
7. A lui principalmente si deve la spaccatura degli anni ‘30 tra douhettiani e mecozziani, nel pensiero strategico italiano. Va da se che, mentre i douhettiani erano per un utilizzo del mezzo aereo indipendente e finalizzato al bombardamento strategico, i mecozziani erano invece per un utilizzo integrato con i comandi di terra e di mare e, soprattutto, in mansioni di appoggio aereo ravvicinato e interdizione (oltre che, ovviamente, di caccia).
8. Tra questi l’ autorevole Michael Howard, che arriva a definire Douhet un cripto-pacifista, in quanto consapevole che la brutalità della guerra per come da lui descritta, farà in modo che essa debba avere un potere deterrente, scongiurando dunque (o riducendo grandemente) la possibilità che essa venga combattuta. Luciano Bozzo, a cura di, “Il dominio dell’aria e altri scritti”, Aeronautica Militare, Ufficio storico, 2002.
9. L’ unico vero successo forse può essere considerato quello israeliano del 1967, che mise letteralmente in ginocchio l’ aviazione egiziana, decidendo così le sorti del conflitto, che dovette comunque poi essere vinto per terra a mezzo di un’ avanzata di mezzi corazzati e truppe meccanizzate. P. Paret – N. Labanca (a cura di), Guerra e strategia nell’età contemporanea, Marietti 1820 Editore, 1992
10. Non è un caso che uno dei punti irrisolti della teorizzazione clausewitziana sia relativo alle campagne napoleoniche. Da un lato vi è ammirazione per il condottiero francese, che, nelle sue campagne, più di chiunque altro si avvicina all’ ideale di guerra assoluta clausewitziano, quella che tende all’ estremo, non mitigata da tutta quella serie di limitazioni che caratterizzano poi la guerra reale. Dall’ altro lato però, Bonaparte rasenta pericolosamente la distruzione di quell’ equilibrio europeo, che avverrà infine con la prima guerra mondiale.
11. Nel suo “la guerra del 19..” ad esempio immagina un ipotetico scontro franco-tedesco con l’ aviazione francese che risolve lo scontro piegando la resistenza della capitale nemica dopo aver conquistato il dominio dell’ aria.