Il processo di rinascita islamica nell’Urss prima, nella Federazione russa e Csi (Comunità di Stati Indipendenti) poi, è stato un fenomeno oggettivamente rilevante che si è manifestato a partire dagli inizi degli anni ‘90. Più precisamente, spiegano i curatori russi del volume Islam e politica nello spazio post-sovietico, si dovrebbe parlare di «restaurazione del ruolo dell’islam nella comunità»[1] perché l’islam in quest’area non sarebbe mai morto, nonostante la forte campagna di ateizzazione promossa dal governo sovietico nella sua settantennale esistenza. A partire dal decreto “Separazione della religione dallo Stato e dalla scuola” del 1918, infatti, il sistema di educazione religioso e le strutture cultuali furono destituite di legittimità, limitate nella loro attività, e migliaia di moschee furono distrutte.[2] I contribuiti pubblicati in questo studio offrono materiale di analisi sufficiente per comprendere la portata di tale fenomeno in aree dell’Asia Centrale come quella caucasica e quella del Turkestan comprendente paesi come Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan. I due autori, Sergej Filatov e Aleksej V. Malashenko, datano l’inizio di tale processo generale di rivitalizzazione dei movimenti religiosi nel 1988, data in cui si festeggiò il millennio del battesimo della Rus’ con la conversione del principe Vladimir I di Kiev (958-1015 d.C.) e in seguito alla quale tutto il popolo russo venne convertito. Tale circostanza eccezionale avrebbe segnato da un punto di vista cronologico un allentamento delle persecuzioni religiose con un cambiamento della posizione del governo sull’ortodossia che si rifletté anche sulla situazione dei musulmani presenti sul grande suolo sovietico.[3] Una tale spiegazione evenemenziale di un processo così imponente si mostra insufficiente se non correlata ad almeno due fenomeni determinanti l’autocoscienza dei musulmani di area sovietica e post-sovietica. Da un lato il periodo della perestrojka gorbacioviana avrebbe determinato da un punto di vista politico-culturale la rinuncia all’ateizzazione forzata (e quest’aspetto è riconosciuto dagli autori); dall’altro tale processo di rinascita islamica si deve inscrivere all’interno di un più vasto quadro politico-culturale di rivalorizzazione ideologica dell’identità religiosa musulmana all’interno dell’Oriente in generale. A tale ultimo processo si può attribuire il nome di Rinascita islamica, le cui cause non possono essere ascritte a fattori religiosi immanenti al mondo musulmano, quanto piuttosto alla situazione ideologica e geopolitica mondiale. Secondo il politologo statunitense Samuel Huntington «ignorare le conseguenze della Rinascita islamica sul quadro politico dell’emisfero orientale di fine XX secolo significa ignorare l’impatto avuto dalla Riforma protestante sulla politica europea del tardo XVI secolo».[4]
Relativamente all’area postsovietica le cause di tale fermento religioso non sono solo di ordine demografico.[5] Da non sottovalutare è il fenomeno di «liberalizzazione ideologica nel paese»[6] dopo il 1989 attraverso la quale organizzazioni di islamisti non conformisti, cioè ostili al regime, percepirono se stessi come soggetti politici legittimati a promuovere rivendicazioni islamiche. A questo tipo di rivendicazioni di carattere culturale-religioso si sovrappose un aspetto etnico che poté manifestarsi talvolta in modo pacifico, come le moschee kazake e kirghise che operano per l’uno o l’altro dei gruppi etnici della popolazione,[7] oppure in modo destabilizzante scatenando processi in cui il separatismo etnico coincide con il settarismo confessionale, come nella prima e seconda guerra cecena (rispettivamente 1994-96, e 1999-2009). Fondamentale presupposto geopolitico dell’analisi degli autori è che «la rinascita islamica in Asia centrale è anche un fattore centrifugo e di tensione verso un consolidamento etnico».[8] Alla luce di questi aspetti non si può che rimanere stupiti dall’opinione dello storico dell’Europa Orientale Andreas Kappeler, secondo cui durante la fase della perestrojka «nell’Asia Centrale non apparvero movimenti nazionali o islamici».[9] Il fenomeno di rinascita islamica nell’area post-sovietica sarebbe infatti già stato attestato dall’orientalista Gilles Kepel nel suo noto La Revanche de Dieu (1991), in cui si trovava scritto che «gli anni Settanta hanno portato alla ribalta i movimenti islamici, dalla Malesia al Senegal, dalle repubbliche musulmane sovietiche alle periferie europee popolate da milioni di musulmani immigrati».[10]
La rinascita islamica nello spazio post-sovietico ricostruita dagli autori si svolge attraverso momenti e dinamiche diversi relativamente alla configurazione storico-politica peculiare delle regioni sovietiche. Da un punto di vista più unitario il fenomeno si caratterizza per una prima fase, databile in modo indicativo dal 1988 al 1991, che consiste nella riattivazione dell’islam sommerso favorito dal processo di democratizzazione. In questa prima fase ha inizio la restituzione delle moschee, la fondazione di associazioni musulmane, di scuole domenicali presso le quali si poteva studiare il Corano e una riabilitazione delle ricorrenze religiose pubbliche. In questa fase la rinascita avvenne certamente a causa di un allentamento della politica ideologica sovietica, ma rimase ancora estranea alla politica ufficiale.
La seconda fase avrebbe inizio proprio con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. La trasformazione dell’Urss in Federazione Russa portò alla nascita di una pluralità di realtà regionali in cui l’islam venne assunto come parte integrante, e in alcuni casi determinante, degli elementi ideologici di indipendentismo politico. In questa fase l’islam poté ricevere una legittimazione formale perché ebbe una funzione strumentale e al contempo palingenetica rispetto al rafforzamento delle identità nazionali. All’interno di questa legalizzazione della partecipazione dell’islam alla vita politica iniziarono ad emergere anche gruppi fondamentalisti che avrebbero avuto sempre più manifestamente lo scopo di fondare uno stato islamico all’interno della Csi. Questo fu il fine ultimo di numerosi movimenti islamisti e indipendentisti come il gruppo armato indipendentista ceceno Jama’at assieme al programma presentato da Maskhadov alle elezioni presidenziali del 1997 che prevedeva la costituzione di uno «stato ceceno islamico»,[11] oppure la sezione tagika del Partito islamico della Rinascita (Ipv), i wahabiti penetrati nel Daghestan o l’associazione Badiozman in Uzbekistan. In questa fase di cooptazione dell’islam più moderato all’interno delle ideologie ufficiali, le classi dirigenti post-sovietiche agli inizi degli anni ‘90 scoprirono nell’islam un «potenziale di stabilizzazione della società».[12] Tra il 1989 e il 1990 in Uzbekistan, per esempio, il numero delle moschee aumentò da 84 a 250, le feste religiose tra il 1990-91 vennero dichiarate festività ufficiali e la “luna di miele” tra l’islam e il governo uzbeko in seguito all’efficacia delle dimostrazioni di piazza nella capitale Taškent per chiedere le dimissioni del muftī Babachanov, che presiedeva la Dum (Direzione spirituale dei musulmani dell’Asia Centrale), accusato di essere filo-russo.[13] In seguito la “luna di miele” finì con un dualismo in seno alla comunità musulmana provocato dalla scissione all’interno della Direzione dei musulmani dell’Uzbekistan, che operava un controllo degli ulema volto a saldarli al potere, di musulmani non conformisti che rivendicarono una propria posizione politica contro le autorità laiche. Questo conflitto porterà all’estromissione del muftī Muhammad-Yusuf con l’imam Abdullaev, ligio al presidente Karimov. In particolare la guerra civile tagika fu un segnale che destò numerose preoccupazioni circa l’apertura e l’istituzionalizzazione di organizzazioni islamiche. Come mostra il caso tagiko, la distensione dei rapporti tra governi e organizzazioni islamiche lasciò ben presto spazio ad una terza fase in cui il “fattore islam” si rovesciò in un potenziale di destabilizzazione. Nel maggio del 1992 il governo tagiko diede inizio a persecuzioni contro il Partito della rinascita islamica del Tagikistan (Pivt) che, pur avendo un programma economico di tipo «capitalista allo stato puro»,[14] godeva dell’appoggio di gruppi fondamentalisti della regione del Kuljab.[15] Il conflitto si risolse a favore del governo a causa della scissione in seno al blocco islamico-moderato relativamente a questioni di politica estera: se gli islamisti tagiki erano legati ai confratelli islamisti uzbeki attraverso il legame sovranazionale della umma, l’ala nazionalista del blocco di opposizione tagiko non favorì l’unità con gli islamisti uzbeki. L’interesse geopolitico russo per la regione tagika a forte rischio di instabilità fu determinante per l’intervento della 201esima divisione della fanteria russa.
La terza fase di questo fenomeno di Rinascita islamica, che è scaturita da drammatiche crisi come quella tagika, è definita dagli autori come fase di “delusione” per l’islam ed è collocata tra la fine del 1992 e il 1996. Si fece crescente il timore che all’interno delle regioni post-sovietiche potesse avere inizio «una nuova perestrojka, ma questa volta orientata verso i regimi musulmani conservatori del vicino Oriente».[16] È bene ricordare che all’interno del sunnitismo, comprendente circa il 90% dell’intero insieme di musulmani, vi sono quattro scuole giuridico-religiose (madhhab) che si caratterizzano per diversi orientamenti rispetto alla sharīʿah e alla giurisprudenza islamica (fiq): Malikismo, Sciafeismo, Hanafismo e Hanbalismo. Se infatti è vero che la parte assolutamente maggioritaria dei musulmani nella regione centroasiatica del Turkestan ha professato per parecchi secoli l’islam sunnita di scuola hanafita, tradizionalmente più aperto a possibilità di innovazione, la studiosa Marija Malashenko osserva che «i predicatori del Vicino Oriente, dell’Arabia Saudita, degli Emirati arabi cercano di diffondere in Uzbekistan l’islam del madhhab più radicale, quello hanbalita».[17] In queste aree post-sovietiche l’islamismo, in particolare quello wahabita e hanbalita, costituisce un fattore destabilizzante per i governi che si caratterizzano per un élite politica educata secondo una forma mentis sovietica, e da un punto di vista culturale-religioso esso si presenta come un elemento allogeno rispetto alle forme sincretiche di religione musulmana.
Nell’area kazaka e kirghisa, per esempio, si conservano credenze preislamiche e culti locali talvolta ereditati dall’antica religione protomonoteistica;[18] «in tutte le regioni del Tagikistan – scrive Aziz Nijazi – si conservano riti preislamici, venerazione di santi e di sante, fede nella magia e nei prodigi».[19] Questo insieme di ragioni politico-culturali giustificavano la preoccupazione degli ulema kazaki e kirghisi verso la predicazione di imam stranieri, soprattutto degli Stati arabi, distinta per un forte radicalismo.[20] Già alla fine degli anni ‘80 in Tagikistan, a seguito di una lettera contenente osservazioni su problemi religiosi e socio-politici inviata dal mullah S. A. Nuri al XXVII congresso del Pcus, il governo decise di intervenire con misure repressive contro gruppi islamisti e proibendo pubblicazioni sovversive come quelle dei loro teorici: Sayyid Qutb in primis assieme a suo fratello Muhhammad, ma anche al-Qardawi, Mawdudi, al-Banna e al-Afgani.[21] Indicativo di tale potenziale di destabilizzazione dei gruppi islamisti fu per esempio la posizione del presidente ceceno Maskhadov che, un anno dopo il suo annuncio di creazione di uno “stato ceceno islamico”, si dovette render protagonista, insieme al muftī della repubblica cecena, di una «massiccia campagna di discredito dei wahhabiti, come portatori di un’ideologia estranea al popolo, agenti di servizi segreti e avventurieri politici, orientati a portare la Cecenia ad una nuova guerra con la Russia».[22] All’interno delle repubbliche postsovietiche i governi, in questa terza fase di “delusione” del processo di Rinascita islamica, dovettero reagire a forme di proselitismo proveniente da aree sunnite e fomentato dal capitale saudita di quelli che Kepel definì come «banchieri della reislamizzazione».[23]
Ai fini di una comprensione del carattere potenzialmente destabilizzante dell’islamismo e della sua strumentalità rispetto a rivendicazioni etniche, particolare attenzione in questo volume merita il secondo capitolo di Aleskey Kudrjavcev dedicato alla situazione caucasica e alla genesi della prima guerra cecena. Lo studioso rileva come nell’attuazione di una politica unilateralmente separatista del generale ceceno Dudaev «il fattore islamico giocò un ruolo primario».[24] Dudaev nel 1993 rilanciò l’appello all’islam come strumento di coesione nazionale cecena e per questo fu perfino difeso dai suoi sostenitori come imam,[25] all’interno di una regione dove il processo di islamizzazione dal basso era già in atto. Nel giugno del 1990, infatti, venne fondato il Partito islamico della Rinascita (Ipv) composta da membri musulmani di varie etnie del Caucaso settentrionale e nello stesso anno comparve il partito “La via dell’islam” dell’imprenditore ceceno Gantamirov. I due partiti erano uniti nel fine dell’instaurazione di uno stato islamico indipendente e della lotta contro il governo ateo sovietico: la lotta contro Mosca venne intesa come jihad.[26] Quella “internazionale islamica” che preconizzava una umma fondata sul riconoscimento di uno jus religionis e sul disconoscimento dei confini etnico-territoriali aveva un unico obbiettivo in aree diverse o, per dirla con ‘Abd al-Salam Faraj, ideologo del gruppo egiziano al-jihad, un unico “imperativo occultato”:[27] combattere il Faraone nei paesi arabi socialisti e l’«Impero»[28] nemico dell’islam nello spazio sovietico, cioè le manifestazioni politiche della jahiliyya contemporanea (l’”ignoranza” dell’insegnamento del Profeta, paragonabile a quella preislamica). In questa fase di lotta dell’islamismo vale quanto scrisse Vatikiotis a proposito dell’aprioristica illegittimità di ogni Stato non fondato sulla hakimiyya (sovranità) di Allah dal punto di vista islamista: «finché i propugnatori dell’islam sosterranno che esiste un ordinamento politico specificamente islamico, essi non riconosceranno mai l’autorità di uno Stato che non si basi sui principi della fede».[29]
La quarta e ultima fase analizzata dagli autori di Islam e politica nello spazio post-sovietico è collocata temporalmente nella seconda metà degli anni ’90 e si caratterizza per la nascita di una prima generazione di «musulmani non sovietici».[30] Alla nascita di questa nuova generazione di credenti corrisponde anche l’emersione di una nuova generazione di ulema che vanno dai 22 ai 27-28 anni e che in questo periodo sono già diverse migliaia. Ciò non implica solo un conflitto generazionale con i vecchi ulama cresciuti e conformatisi al sistema sovietico, ma avrà anche conseguenze sulle nuove forme di islamizzazione delle società post-sovietiche, orientate verso un islam politicizzato e sempre meno conciliato con le autorità. Uno sguardo panoramico sugli sviluppi politico-religiosi dell’islam nello spazio post-sovietico negli anni ’90 ci consente di individuare in Cecenia e Daghestan il focolaio dell’attivismo islamico russo, in Tagikistan e in Uzbekistan (con particolare riferimento all’area del Fergana ad est) quello dell’Asia Centrale. Significativa in questa dinamica era la tattica politica espressa D. Usmon, ideologo dell’opposizione islamista tagika ed ex membro della direzione del Partito islamico della rinascita (Ipv) dell’Urss, secondo cui nell’impossibilità di costituire una repubblica islamica agli inizi degli anni ’90 si sarebbe resa necessaria la creazione di un sistema multipartitico da impiegare per eliminare il monopolio del Partito comunista nella gestione del potere. Lo stato democratico di diritto, per quanto teologicamente impuro per definizione rispetto al concetto di hakimiyya, svolgerebbe in questo modo una funzione strumentale alla causa islamica per una ragione che fu già individuata da Huntington: nei sistemi elettivi parlamentari non occidentali «la competizione elettorale può portare al potere forze nazionaliste e fondamentaliste antioccidentali».[31] Se il nesso tra fondamentalismo e anti-occidentalismo non è affatto pacifico, come dimostra la prassi politica delle petromonarchie saudite, tale tattica ha però risvolti interessanti per la comprensione della recente ascesa delle forze politiche islamico moderate e capitaliste nel nord Africa e Medio Oriente in lotta contro i regimi socialisti e baathisti. In questo modo le rivendicazioni islamico-democratiche tese alla creazione di sistemi liberali multipartitici farebbero pressione per la creazione di un sistema che diviene vittima di sé stesso: l’islamizzazione dal basso alleata delle forze più liberali troverebbe poi nello stesso “Stato di diritto” un limite alla sua politica. L’oscillazione tra orientamento estero ed economico di tipo occidentale e l’inizio di un’interna islamizzazione dall’alto incapace di controllare quei fenomeni di islamizzazione scatenati dal basso, sarebbe pertanto un indice di tale difficoltà.
In questo volume pubblicato in Italia ormai nel 2000, sono compresi sette saggi dedicati alle aree centroasiatiche e a questioni diverse, come per esempio al rapporto tra islam e forze armate nella Russia contemporanea. Lo studio delle fasi successive dello sviluppo dell’islamismo nello spazio post-sovietico non può quindi essere qui incluso, ma alcune linee di tale sviluppo sono già tracciate e certamente meritano nuovi studi approfonditi.
[1] FILATOV S. – MALASHENKO A. V., Introduzione, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, a cura di Filatov S. – A. V. Malashenko, Fondazione Agnelli, Torino, 200, p. XII.
[2] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 132.
[3] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 173.
[4] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 157.
[5] Ivi, p. 172: «Negli anni settanta, ad esempio, gli equilibri demografici nell’ex Unione Sovietica ha subìto un drastico mutamento, con una crescita del 24 per cento dei musulmani rispetto al 6,5 per cento dei russi, il che ha suscitato grossi timori tra i dirigenti comunisti dell’Asia Centrale».
[6] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 109.
[7] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 85.
[8] Ivi, p. 79.
[9] KAPPELER A., La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma, 2006, p. 353.
[10] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, pp. 18-19.
[11] Lo stesso orientamento ebbero anche i predecessori D. Dudaev, e Z. Yandarbiyev, che nel settembre del 1996 introdusse per decreto il codice penale islamico e proclamò l’islam religione di stato. Già con Dudaev nell’aprile dell’anno precedente vennero introdotti per decreto degli istituti tribunali islamici nelle provincie meridionali della neonata Repubblica cecena di Ichkeria. Vedi KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 41-42.
[12] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.
[13] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 134-135.
[14] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 116.
[15] Ivi, p. 118.
[16] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 176-177.
[17] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 148.
[18] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 77.
[19] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 105.
[20] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 88.
[21] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 109-110.
[22] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 43-44.
[23] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, p. 38.
[24] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 30.
[25] Ivi, p. 40.
[26] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.
[27] KEPEL G., Il profeta e il faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 171.
[28] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 31.
[29] VATIKIOTIS P. J., Islam: stati senza nazioni, Il Saggiatore, Milano, 1993, p. 155.
[30] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 179.
[31] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 289.